Se il basso è alto e la comunità fa cultura
La città contemporanea sembra avere nel suo DNA, quasi per ossimoro, la sottrazione dello spazio pubblico, dello spazio d’incontro, dello spazio di aggregazione. Non parliamo dell’aggregazione spettacolare che gode di format di successo, anche se in questi giorni la mente va tristemente alla Love Parade e alla tragedia di Duisburg. Ma parliamo dell’aggregazione spontanea, quotidiana, che dà un senso ed un’appartenenza alla nostra dimensione urbana, che ci arricchisce nel regalarci un confronto ed un dialogo con altre esperienze e visioni del mondo.? Il timore per la quiete dei residenti e per l’ordine pubblico, insieme alle spinte speculative, stringono in una morsa gli spazi urbani destinati alla creatività e all’aggregazione, spazi non necessariamente votati alla contestazione e alla rivoluzione, ma più semplicemente, e forse anche banalmente, allo stare bene insieme e al ritrovarsi in una comunità condivisa.? Così in un capoluogo di regione, commissariato e caratterizzato da una politica di promozione culturale falcidiata dai tagli, come la città di Bologna, che negli anni ‘80 e ‘90 godeva di tutt’altra fama, può diventare significativo l’esempio di una piccola enoteca, Altotasso (Piazza San Francesco, 6/d), che si è evoluta ed affermata come un centro di aggregazione culturale urbano.
Al suo interno si raccoglie una comunità spontanea di frequentatori abituali, italiani e stranieri, composta da professori e ricercatori universitari, manager, architetti, altre professionalità di livello ma anche operai, studenti universitari e ragazzi, che hanno trasformato uno spazio ricreativo in un centro innovativo di promozione culturale dal basso, proponendo iniziative apprezzate e riconosciute anche dall’alto, inserite nelle Giornate del Contemporaneo promosse da AMACI o nei programmi universitari, quando non inedite per il territorio italiano come il primo Festival italiano di video virali, attività per lo più parallele ad una cultura istituzionalizzata in grande difficoltà.
Ideatrice dello spazio e gestore dell’enoteca è Nicoletta De Iulis, che ci conferma:
Sin dall’apertura volevamo dare fondamentalmente degli spazi liberi a chi si potesse esprimere, assolutamente non ci interessava vendere alcol, c’interessava creare e ritrovarci in una comunità culturale o almeno provarci.
Cosa intendi per culturale?
Lo spazio delle nostre attività è ampissimo, va dalla poesia, alla musica, alla pittura, al cinema fino all’architettura. La maggior parte delle proposte culturali vengono fatte per il puro piacere di farle da parte degli stessi autori, ossia non vengono retribuiti per la serata, riconoscono il valore della comunità ed il coinvolgimento della stessa all’interno del loro progetto o della loro opera. Il che è bello, si vive questo rapporto in modo quasi anacronistico, ci si ritrova tra un bicchiere di vino ed una poesia per vivere insieme questo momento.
Nicoletta ricorda con emozione, tra gli altri, l’incontro ad Altotasso con Lance Henson, poeta Cheyenne tra i più rappresentativi della cultura dei nativi d’America e più in generale della poesia americana contemporanea. Ed aggiunge:
Questa comunità non è ferma, non appartiene ad Altotasso, appartiene a questa città e veicola attraverso gli spazi che gli vengono proposti e nei quali riesce ad esprimersi, Altotasso è uno di questi.
Qual è il rapporto che avete avuto con l’amministrazione di questa città?
Da questa città abbiamo avuto solo repressione, non ha assolutamente colto l’aspetto culturale, mentre per un altro verso evita che ci siano delle comunità nel centro storico, si preferisce che le comunità culturali si ritrovino in spazi relegati esclusivamente a loro, senza che ci sia interazione tra le diverse fasce sociali e culturali. Ma un posto di riferimento, uno spazio esterno che intende raggruppare persone di un determinato tipo, tende alla fine anche a ghettizzarle, quindi a non farle integrare con le altre fasce che invece in un qualsiasi bar del centro è facile incontrare.? Ad Altotasso ritroviamo lo studente universitario, il professionista ed il muratore, dunque la complessità sociale si ritrova in esso, umana o culturale che sia, c’è diversità, cosa che invece negli spazi di riferimento esterni non c’è, si va là solo se si vuole avere quel tipo di proposta.
L’arch. Simone Sindaco, curatore insieme all’arch. Britta Alvermann della fortunata rassegna presso Altotasso dedicata al tema “cinema e architettura”, giunta alla terza edizione e al secondo convegno previsto per il prossimo ottobre, ribadisce:
Non ci vuole necessariamente uno spazio istituzionale, anzi è bene alle volte che non ci sia. Per la nostra Rassegna lo spazio informale è stato scelto di proposito. A Bologna dovrebbero esserci molti più spazi informali, ce n’è più di qualcuno, ma sono troppo pochi e in rapporto al passato sono addirittura meno. Gli spazi informali sono spazi che consentono la spontaneità e dunque l’interesse vero, la volontà di rapportarsi con gli altri, con tutte le differenze e la bellezza delle differenze, superando anche la scissione prodotta da quel “muro” che c’è di solito tra relatore e audience. ?Semmai il problema è un altro, questi spazi così importanti, se non addirittura vitali, in continuo divenire, dove si creano e si evolvono comunità, sono sempre più scarsi e sempre più difficile è la loro sopravvivenza nel tessuto urbano.
Dello stesso avviso Francesco Mazzucchelli, semiologo della città e ricercatore all’Università di Bologna:
Non possiamo immaginare che la cultura di una città si possa misurare solo dai cartelloni dei suoi teatri e dai programmi dei musei, l’identità culturale si misura anche e soprattutto dalla vivacità dei suoi spazi pubblici. La maggior parte dei centri sociali e di produzione culturale alternativa sono stati espulsi al di fuori delle mura e la tendenza continua ad essere questa. Così, però, si tende a “musealizzare” il centro storico, a creare una “città-museo” ad uso di consumatori e turisti. Troppo spesso s’invoca la storia della città come un libi per una ristrutturazione e, contestualmente, per una nuova e diversa destinazione d’uso dei palazzi storici, che divengono degli spazi puramente commerciali.
Se, come testimonia il caso di Altotasso, il basso è alto e la comunità fa cultura… Affidare il destino degli spazi pubblici e di aggregazione ai cittadini, potrebbe permettere alle città in cui abitualmente viviamo di non negare costantemente quella speranza di connessioni, culture, opportunità, dialogo, che ci consentirebbe di tornare ad immaginare la vitalità e la libertà della città non unicamente come il prototipo di un’utopia.
Tavano Andrea
il testo riprodotto è tratto da www.tafter.it